Quando gli Hopi - una antichissima tribù dell’Arizona - pronunciano in un contesto di profezie la parola “Koyaanisqatsi” che vuol dire “la vita senza equilibrio”, intendono riferirsi agli squilibri e follie di una vita in via di degradazione, alla quale necessita un nuovo stile. Ispirandosi a un tale concetto, questo film (che film però è al tempo stesso un vero e proprio documentario) mira a raffrontare la maestà della natura - terre, mari, cieli - là dove essa è ancora incontaminata, con le precarie e spesso assurde realizzazioni della umanità di oggi, disancorata dai valori più essenziali e, appunto, naturali, lanciata in una corsa demenziale. Immagini naturali e urbane si susseguono in un montaggio ora accelerato ora rallentato, ritmato dalla musica che svolge un ruolo chiave.
Tre anni di riprese, quattro di montaggio e post-produzione sono un lasso di tempo da far invidia a Kubrick. Il documentario di Godfrey Reggio ha goduto di un notevole battage, tutti lo aspettavano con curiosità. E qualcosa di idealmente kubrickiano in fondo c’è nella pellicola: dall’inizio maestoso e primitivistico all’avvento sempre più prepotente di una cultura che ha soppiantato la natura. Di più: il graffito che apre il film potrebbe in fondo essere letto in qualche modo alla stregua dei monolito di Odissea nello spazio.
Ma il confronto finisce qui. Al di là dalle differenze che sussistono fra cinema narrativo e documentaristico, il film di Kubrick era robustamente mistico mentre quello di Reggio è piuttosto moralistico. Contrappuntata dalla musica di Philip Glass, massiccia e ossessiva, la ripresa di grandiosi momenti naturali americani (Monument Valley, fiume San Juan, Grand Canyon, ecc.) con la mdp piazzata su velivoli e con accelerazioni degli effetti visivi che molto devono alla bella fotografia di Ron Fricke, lascia il posto a macchine, esplosivi, urbanizzazione, motorizzazione, industria bellica. Bombe e missili si alternano ad autostrade gigantiche e città al neon, folle dantesche percorrono in ralenti la 5a Avenue.
Forme e musica si fondono e come in un salmo medievale ciò che è terreno dovrebbe perdere la sua grandezza e la sua pompa in nome dei divino naturale ormai sopraffatto.
Ma l’intoppo è qui: a differenza dalle intenzioni di Reggio e da quel che molta critica ha pedissequamente affermato, a noi sembra che questo non avvenga. Se si eccettuano i micidiali ordigni bellici (atomica, bombardieri, ecc.) gli attori “naturali” di Koyaanisqatsi non sono più affascinanti di quelli “culturali”, dei grattacieli e delle highways con i loro snodi imponenti, del cuore di New York o dell’autostrada che entra velocissima in San Francisco.
Sembra insomma che il regista abbia involontariamente celebrato non solo l’indubbia bellezza naturale degli States ma anche quella delle opere umane. Il suo obiettivo diviene glorificazione imprevista e involontaria di un gigantesco sforzo culturale e la perfezione architettonica, poniamo, dei Microdata di Los Angeles non può non lasciare rapiti, come dei resto l’intera visione munumentale di Century City.
Tutto questo, si noti, senza tener conto della solita, vecchia obiezione per cui dopotutto Reggio ha usato di una tecnologia alquanto sofisticata per proporre la sua condanna tecnologica.
Sì sì, il titolo, derivato dall’ indiano Hopi, vorrà anche dire “vita folle, tumultuosa”, ecc. come si affrettano a notificarti i depliant, ma da questo punto di vista il suo documentario sembra più il prodotto di una cultura sessantesca che di un atteggiamento d’epoca post-moderna.
Le immagini sono belle, la fotografia perfetta, il montaggio buono. E anche la protesta ecologica e antibellica è certamente sacrosanta, ma si potrà mai condannare Marconi per avere inventato la radio o i fratelli Wright l’aeroplano?
Franco La Polla
Cineforum n. 235
Regia: Godfrey Reggio
Soggetto: Godfrey Reggio
Sceneggiatura: Godfrey Reggio
Fotografia: Ron Fricke
Musiche: Philip Glass
Montaggio: Ron Fricke, Anne Miller, Alton Walpole
Origine: Usa
Anno: 1982